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Archive for febbraio 2008

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Legno si o legno no nel vino? Vini del falegname, legno sapientemente dosato, o acciaio ? Per un articolo sul Montepulciano d’Abruzzo, ho appena finito di testare un campione veramente piacevole, nel quale l’affinamento in acciaio dona sapientemente freschezza e rotondità. E’ innegabile che la barrique, in questi ultimi anni ha assunto un ruolo sempre più dominante nella produzione dei grandi vini, ma adesso da più parti compaiono evidenti segni di crisi. Le origini del binomio vino-legno sono molto antiche, e nel corso del tempo la botte ha sostanzialmente cambiato il suo ruolo, da mezzo di trasporto ad importante strumento di vinificazione e affinamento, nel nobile intento di cedere al vino molti dei suoi costituenti, i tannini detti gallici, le aldeidi aromatiche che apportano nuovi aromi, le sostanze odoranti non fenoliche responsabili del sapore detto boisé. L’importante rapporto tra vino e legno è influenzato da diversi elementi, innazitutto la dimensione della botte, più è grande e minore sarà il contatto con il vino, e quindi lo scambio di proprietà.

Spesso però in questi ultimi anni si è esagerato con i passaggi in legno, andando oltre l’ evoluzione chimica che porta all’affinamento di tutte le qualità organolettiche del vino, che vanno dalla maturazione del colore, ad una sensibile modificazione dello stato del tannino. Il vero problema su cui dibattere è, quanti sono vini che finiscono in barriques o botte che hanno le caratteristiche adeguate per una evoluzione positiva ?
Diciamo la verità troppi non hanno la struttura adeguata per supportare il rovere, o sono maturati in contenitori di dimensioni e tostatura non adeguate alle caratteristiche del prodotto in questione.

E’ possibile fare una distinzione tra rovere francese o europeo e rovere americano. In Italia e in Francia si usa prevalentemente il primo, che è assai più costoso, in Spagna, in America e in Australia si usano entrambi. In Europa esistono diverse foreste, le più note sono in Francia, Allier, Tronçay, Nervers, ma esistono anche ottimi legni in Austria, in Russia, in Ungheria. Per le botti grandi la tradizione italiana ha preferito il rovere di Slavonia ancora molto diffuso.
Fattore importante, appunto, è la tostatura del legno, che prevede una breve bruciatura delle pareti della barrique per “fissare” le sostanze aromatiche ed estrattive che saranno rilasciate al vino. Il vino “barricato” potrà assumere aromi piacevolissimi se ben calibrati, fastidiosi ed eccessivi nei casi in cui si ecceda nell’affinamento del vino a contatto o in quei casi in cui il vino non abbia sufficienti caratteristiche organolettiche da equilibrare, il risultato sarà un vino nel quale i profumi del legno eccessivi coprono gli aromi del vino.

Ecco perché l’uso della barrique deve essere sempre ben dosato e soprattutto deve avvenire quando un vino provenga da uve ben curate, ottimamente vinificate, e mostri caratteristiche peculiari specifiche per un’elevazione in legno, per evitare quello che un mio importante amico winemaker chiama il tragico effetto “cappuccio”, dovuto al mix del caffè del legno col lattico del vino.
Il rilancio dei vini affinati in acciaio è comunque un’importante dato di fatto, sono sempre di più e di gran qualità. Ma un vino per ammaliare e restare a lungo nella memoria deve necessariamente avere quelle complessità organolettiche date dal legno ?

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Che Angelo Gaja, uomo simbolo del vino italiano, fosse un personaggio straordinario l’ho sempre immaginato conoscendo la sua storia ed i suoi vini, ma l’occasione di incontrarlo e chiacchierare con lui per un’intervista mi ha fatto apprezzare in modo particolare l’uomo e comprendere a pieno il suo grande amore per la vigna, il suo giusto rispetto per il territorio e per il vino, inteso come prodotto unico ed irripetibile.

( vedi articoli: www.planeta.it/rassegnastampa/luigisalvo/angelogaja.pdf www.luigisalvoilmondodelvino.t/incontroangelogaja.html )

Uomo lungimirante, in ogni momento storico è sempre riuscito a capire ed attuare, prima di altri, le migliori strategie di produzione e vendita, che non stravolgessero la filosofia produttiva che si era prefisso. Dalla sua ormai canuta esperienza, per il 2008 ha stilato, anche con una certa ironia e pungenza, le sue speranze e le priorità per il futuro del vino italiano, le pubblico con piacere, perchè su ogni sua speranza espressa è possibile fare un’attenta riflessione. Alcuni di questi dieci punti sono assolutamente imprescindibili, altri forse discutibili, a secondo dei punti di vista, ma a mio parere il suo desiderio di comunicare , di mettere parola sui problemi più disparati del comparto vitivinicolo è comunque apprezabile e sicuramente può fungere da stimolo per il fare.

1°-Che il Ministro delle Politiche Agricole Paolo De Castro faccia il miracolo di darci il Catasto Viticolo Nazionale entro il 2008. Il primo a sollecitarlo fu Renato Ratti; il mondo del vino ne è rimasto in attesa per trent’anni.

2°-Che ritorni con il 2008 una vendemmia abbondante, altrimenti i produttori italiani avrebbero ben ragione di sentirsi tristi.

3°-Che i nostri sistemi di prevenzione stiano allertati. I soliti marpioni, vecchi e nuovi, sono pronti ad entrare in azione non appena la domanda interna insista a richiedere vini a prezzi più contenuti, che la scarsità dell’offerta non consentirà di praticare.

4°-Che non si resti sgradevolmente sorpresi se tra i vini venduti nei supermercati italiani al di sotto di un euro e venti centesimi a bottiglia sempre di più saranno quelli in arrivo dai paesi dell’est. E’ l’Europa Unita bellezza, il vino italiano può ben procurarsi altri sbocchi.

5°-Che il mercato USA continui a tirare. Altrimenti le cicale di casa nostra avrebbero ben modo di rimproverare i produttori italiani per avere troppo coltivato quel paese a scapito del mercato interno.

6°-Che le associazioni di categoria del comparto vinicolo sappiano per una volta mettersi attorno al tavolo per dare corpo entro il 31.12.2008 al progetto, da sottoporre agli assessori regionali all’agricoltura, che darà avvio al programma concordato con Bruxelles di estirpazione di 68.000 ettari di vigneti italiani, da completare entro il 2010. Risparmiandoci per una volta l’inettitudine e la furbizia italiana del rinvio.

7°-Che si diventi tutti un po’ più smaliziati, un po’ più critici nel guardare ad enti ed associazioni varie che con la scusa di operare nell’interesse generale del territorio continuano invece a succhiare sovvenzioni da destinare al loro interesse particolare.

8°-Che si restituisca dignità al vino. Troppi produttori si lasciano attirare a dare spettacolo con i loro vini, in ogni dove, in ogni luogo. A chi conviene lo spettacolo? Non certamente al vino, il cui consumo pro-capite continua inesorabilmente a calare.

9°-Nella consapevolezza che quello del vino sia il comparto più fortunato dell’agricoltura, mostrare la capacità di assumere una regola che diventi d’esempio anche per gli altri. Che i presidenti delle associazioni no profit che svolgono attività in nome del vino e dei loro produttori, a condizione che queste abbiano beneficiato di sovvenzioni pubbliche con una certa regolarità, non possano ricoprire la carica per più di un mandato, non siano rieleggibili. E che i direttori delle stesse non possano ricoprire la carica per più di due lustri. Il mondo del vino ha bisogno di facce nuove; la non rieleggibilità aiuterebbe a rimuovere i fondi-schiena di pietra e darebbe ai giovani voglia di partecipare.

10°-Nell’orgia di sondaggi che si fanno in Italia, ce ne sta un altro ancora. Individuare tra i quarantenni che fanno parte del mondo del vino italiano quelli che mostrano anche soltanto un pizzico della stoffa dei mai abbastanza rimpianti Giacomo Bologna, Paolo Desana, Renato Ratti, Gino Veronelli. Per aiutarli, tutti noi assieme, a crescere più rapidamente nell’interesse loro e nostro.

Angelo Gaja, Gennaio 2008

Personalmente penso che fra tutti i punti del decalogo, il 4° ed il 9° siano assolutamente condivisibili. Sono contrario per principio alla produzione di massa, il vino italiano adesso più che mai deve trovare nella qualità la sua affermazione, ed a proposito delle facce nuove, il turn over sarebbe ora che si attuasse davvero, specialmente in certe associazioni, ove il denaro pubblico arriva a iosa.

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A tanti sommeliers, è capitato a volte di sentirsi rivolgere una precisa richiesta dal cliente di turno, “mi dà un bianco che esprima la tipicità della zona ?” Il pensiero che assale il malcapitato è quasi sempre lo stesso “e adesso cosa gli dò, non è così facile !!!” Le degustazioni finali della Guida dei Vini Buoni d’Italia 2008 del Touring Club, che mi hanno portato a testare il meglio dei vini bianchi del territorio nazionale, hanno ancora più rafforzato il concetto che le bottiglie di vini bianchi tipici sono in realtà, le uniche a donare sensazioni gustative di gran livello, sono sempre particolari ed entusiasmanti, ma sempre più difficili da individuare, e sapete il perchè ? Perchè alcune doti, ovvero il concetto di territorialità ed unicità del prodotto, l’evidente legame del vitigno con il suo luogo d’origine e la particolare espressione gustativa che in quel luogo può esprimere, per taluni vini, possono essere spesso da ostacolo ad una diffusione su larga scala, non sposando a pieno le migliori strategie di vendita. Certamente è più facile, dal punto di vista commerciale, generare vini che ricalchino il gusto internazionale del mercato, ossia bianchi sempre più secchi, paglierini scarichi, freschi, da commercializzare a pochi mesi dalla vendemmia.

Per fortuna questa tendenza che per anni è stata la regola fissa, adesso è messa in discussione da numerosi produttori, che mettono in cantiere vini che li rappresentino e rappresentino il luogo dal quale provengono. Malgrado ciò, è sempre più difficile per un vino bianco trovare degli estimatori presso il gran pubblico (tranne rari casi, vedi il cliente che cerca esplicitamente un bianco tipico) sia al ristorante sia presso la vendita, se non è, appunto, dell’ultima annata prodotta, se non ha le caratteristiche del gusto globale, se non è pronto a sostenere la competizione con i bianchi argentini, australiani, cileni, sudafricani, i quali riescono ad arrivare sul nostro mercato sei mesi prima dei bianchi italiani ed europei, perchè in quei luoghi le vendemmie iniziano con diversi mesi d’anticipo, nel periodo di Febbraio.

Le bottiglie di vini bianchi tipici, quelli che appunto mi entusiasmano, spesso soffrono la commercializzazione, ed in diverse zone d’Italia, non solo dove la vinificazione di qualità dei vini bianchi ha una storia relativamente recente, per seguire le regole e le tendenze del gusto, parecchi produttori hanno estirpato Albana, Arneis, Trebbiano, Cortese, Inzolia, Garganega e tante altre varietà autoctone per riconvertire i vigneti a varietà alloctone internazionali, o ancora peggio snaturano le caratteristiche di vitigni storici, con vinificazioni ipercorrette o con tagli “assassini”, che portano in bottiglia vini godibili, ma profondamente anonimi, figli della globalizzazione del gusto facile. S’imbottigliano sempre più vini bianchi fruttati e semplici da bere giovani molto freddi, da accostare al pesce, in realtà ai vini affinati in legno o abbastanza maturi, resta un grande innegabile fascino, ed è possibile sposarli al meglio, ad esempio, con preparazioni di pesce elaborate, carni bianche, sformati con formaggio e funghi, gorgonzola cremosi, paté di fegato d’oca.

A mio parere, autoctono o alloctono che sia, un bianco può esprimersi in modo del tutto particolare ed affascinante, e restare a lungo nella memoria olfattiva e gustativa, a patto che sia figlio ed espressione compiuta del territorio, coltivato e vinificato secondo la tradizione del luogo, creato per quello che di unico può dare dalla sua zona di coltivazione. L’alternativa è bere prodotti con lo stampino e ce ne sono in quantità.

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